critica del Brizzi Enrico, e del suo (non più) inimitabile stile
Approfitto di quest’ultimo giorno di vacanza per dilungarmi su un romanzo che non mantiene le sue promesse. in questo momento mi mancano meno di cento pagine alla sua conclusione, ma, dopo averlo letto per quattro quinti so che qualsiasi finale non cambierà il mio stato d’animo.
Il volume di cui parlo è l’ultima fatica di Brizzi, Enrico. Non Fausto, quello che è un buon regista e si diletta di tanto in tanto con una vena drammatica interessante ed intelligente. Brizzi Enrico è e rimane uno dei miei miti di gioventù. Ho letto Jack Fruscisante è uscito dal gruppo cinque minuti dopo che era diventato parte della scuderia Baldini & Castoldi. Ancora oggi, vent’anni dopo, quasi come fosse una canzone del buon Guccini, posso dire che quel romanzo, letto all’età giusta ti prende in un vortice di sentimenti da dove prima o poi siamo transitati tutti prima di giungere all’età adulta, per quello che significhi. Il primo amore che finisce male, la scuola che non ti passa, i genitori che non ti capiscono, l’amico che muore, giovane e bello. Ecco, sono sentimenti così universali che è come scrivere mille altre storie. Solo che Brizzi lo faceva con la voce di quella generazione. Quei ragazzi che erano usciti dagli anni ’80 incerti se doversi comportare come i fratelli maggiori o fare qualcosa di nuovo. Kurt Cobain e Douglas Coupland poi pensarono a definire le pietre miliari di quella strada. Ma nel frattempo, gli imbuti cosmici dell’adolescenza sbucavano nella vita in bicicletta del vecchio Alex. Perfino quando il vecchio Alex somigliava al giovane Stefano Accorsi in una pellicola che più che altro aveva del parodistico in quel finto bolognese recitato e quella voce fuori campo stucchevole.
Quando arrivò ai tempi dell’università Bastogne, rabbrividii. Al di là del volerlo infilare a tutti i costi nella gioventù cannibale (che orribile modo di definire uno scrittore), Bastogne con il suo concentrato di violenza e parafernalia fascista mi lasciò infastidito. Il richiamo era palesemente ad Arancia Meccanica. Ma io ci vidi parecchio Irvine Welsh, che a quei tempi divoravo. E non posso fare a meno di dire, che se pulp doveva essere, preferivo che fosse l’originale. Comprai altri libri di Brizzi negli anni, senza portarne più a termine uno. A Silvia piacque molto la trilogia distopica partita con l’inattesa piega degli eventi. So che gli anni lo hanno trasformato in un amante della camminata e magari mi sbaglio, tutto quel battere su onore e ardore fa battere un po’ troppo il cuore a destra.
Diciamo che Enrico è diventato uno di quegli amici che ai tempi del liceo tra amore e odio non si poteva fare a meno di vedersi poi, col passare degli anni ci si è persi un po’ di vista. Magari si è sentito qualche aneddoto da bar, ma, nel complesso se ci si illuminano gli occhi è solo per quei gioiosi momenti iniziali.
Invece qualche settimana fa ho letto una breve recensione del suo ultimo lavoro, il matrimonio di mio fratello. Cinquecento pagine che intendono raccontare attraverso una storia di famiglia, la storia di Italia degli ultimi quarantanni. C’è chi ha parlato del Vecchio Alex cresciuto, io non ho saputo fare molto a parte andarmelo a comprare. I pretesto della storia è anche molto originale. Due fratelli, più o meno uno ribelle e l’altro ordinario. Crescono e poi il più grande il ribelle scompare. Il viaggio in macchina in autostrada dell’ordinario è il pretesto per ricordarsi tutta la vita intanto che si arriva al gran finale. Che, per inciso, ancora non ho letto. Ma non è proprio quello il punto.
Non voglio dissezionare il romanzo pagina per pagina, ma limitarmi a due cose : stile e contenuti.
Lo stile è povero, se penso alla freschezza linguistica dei suoi primi lavori, al disperato desiderio di cercare neologismi che esaurissero quella fretta e necessità di espressione, adesso non trovo altro. Certo, gli editor della Mondadori hanno esigenze diverse. E badate, non voglio fare per forza quello che dice che Einaudi sta a sinistra come Mondadori a Destra. La politica c’entra (c’entra sempre come direbbe Oliver Queen pre-new52) ma marginalmente. Il pubblico Mondadori è più ‘neoclassico’, poco avvezzo alla ricerca magari. Magari è solo che il giovane Brizzi ora cresciuto si sente più a suo agio nello scrivere una storia in maniera colloquiale. ma lineare. Niente invenzioni, niente variazioni di ritmo. La tanto promessa iniezione di contesto italico si limita a brevi paragrafetti inseriti quasi come un compitino di tanto in tanto. Si parla della prima guerra del golfo menzionando due piloti italiani fatti prigionieri senza neppure menzionarli (Bellini e Cocciolone, erano famosi all’epoca porca puzzola), la Nuova Repubblica si riduce ad uno scambio di battute tra moglie e marito (è meglio l’Ulivo o forza italia, senza neppure nominare quest’ultima se non come il partito di Berlusconi). Insomma, sembra una specie di Bignami in cui si mescola la storia di questa famiglia terribilmente borghese raccontata tramite aneddoti.
E qua arriviamo ai contenuti. La percezione che se ne ha è che, ancora una volta, il cuore batta troppo a destra. Non crediatemi cattivo. Ma il fratello alpinista passa da essere un ribelle a rischiare la vita solo per desiderio di fama. Il protagonista sembra mosso solo dagli istinti più bassi : il desiderio di scopare durante la sua adolescenza, quello di fare soldi seguendo una strada facile e spianata da adulto, quello di strafarsi di cocaina guidando un’auto di grossa cilindrata . Sapete una cosa? Un film di Muccino (grande) qui verrebbe benissimo!
Adesso magari potrò venire sbaragliato dalla mera essenza dei fatti ma, se tanto mi dà tanto, come un romanzo scritto male, uno dei due muore sul finale. Senza troppi dubbi o inganni vari.
peccato.